I LIMITI DELLA C.D. AUTOTUTELA SOSTITUTIVA, TRA EFFICIENZA AMMINISTRATIVA E DIRITTI DEL CONTRIBUENTE (di Alberto Marcheselli)
Con la interessante sentenza 7751/2019 la Sezione tributaria della Suprema Corte affronta una questione di cospicuo interesse, sia pratico sia concettuale, afferente i poteri degli enti impositori.
Il caso è il seguente. Il contribuente, ricevuta una cartella a seguito di accertamento divenuto definitivo, se ne doleva in giudizio, avanzando il motivo di un difetto di notifica della medesima.
Dopo la sospensione cautelare giudiziale, l’Agenzia provvedeva a ritirare il ruolo alla base della cartella, asserendo di avervi individuato un vizio (la omessa sottoscrizione della minuta), emettendone uno nuovo privo del preteso vizio, e facendovi seguire la notifica, regolare, di una seconda cartella.
Si può subito notare che la fattispecie è particolare, ma costituisce specie di un genere più ampio: i limiti del potere di ritiro e sostituzione di un atto nel corso del processo tributario.
In generale, al quesito circa se e quando si possa sostituire un atto viziato, sembra di potersi rispondere come segue.
Il punto è domandarsi, sostanzialmente, se e quando all’ esercizio del potere corrisponda la sua definitiva consumazione.
Tale consumazione è certa (ed espressamente sancita dalla legge) in un caso: quello del decorso del termine di decadenza per la emanazione di quell’atto. Il termine di decadenza è, in effetti, la dimensione temporale in cui il potere esiste: decorso quel termine, il potere non esiste più. Ne consegue che l’emissione dell’atto sostitutivo non è più possibile. È appena il caso di notare, anche a fronte di alcuni sbandamenti della prassi, che il termine di decadenza non è suscettibile di interruzione: a differenza che il termine di prescrizione, che ricomincia a decorrere in caso di atto interruttivo (atto di esercizio del diritto), la decadenza è inesorabile. La differenza è sancita dal codice civile (l’interruzione della prescrizione è disciplinata dagli articoli 2943 ss., mentre la non interruttibilità della decadenza è sancita dall’art. 2964 c.c., ma corrisponde a dati sistematici certamente propri, addirittura a maggior ragione, del diritto tributario. La prescrizione è un effetto estintivo correlato al fine della certezza del diritto: essa pone fine alla ambiguità generata dall’inerzia del titolare del diritto: con tale ratio è compatibile che atti di esercizio o di preannuncio dell’esercizio del diritto, eliminino la ambiguità del silenzio del titolare e comportino che il termine ricomincia a decorrere. Nulla del genere vale per la decadenza: essa non persegue (solo) l’obiettivo della certezza dei rapporti ma si fonda sul fatto che la soggezione all’altrui potere non è indefinita: il potere esiste fino al limite della decadenza, dopo la soggezione deve finire, senza alcuna possibilità di interruzione.
Sul punto, la sentenza in rassegna è perfettamente allineata.
Un secondo limite è altrettanto pacifico, e riconosciuto anch’esso dalla sentenza in commento: la rinnovazione non potrebbe servire a eludere (o violare) un giudicato sull’atto da ritirare: se è esso è stato definitivamente annullato il potere non può più essere esercitato. Tale limite trova il suo fondamento, inespresso, nella primazia delle pronunce giudiziali (definitive) sui poteri. La soluzione può avere anche un fondamento di buon senso: l’Amministrazione ben potrebbe ritirare l’atto durante il giudizio: consentirgli di attendere l’esito, conservandole il potere di provvedere di nuovo in caso di esito negativo appare sproporzionato (e anche contrario al principio di imparzialità ed efficienza, comportando altresì la dispersione di energie giurisdizionali).
A questo punto sorge la questione se esistano ulteriori limiti.
Intanto il ritiro dell’atto deve corrispondere a un interesse pubblico (che non può né esaurirsi nella eliminazione del vizio, né tantomeno, nell’obiettivo di assicurare comunque la riscossione del tributo). Nel corso del giudizio, tuttavia, tale interesse esiste, direi per definizione: arrestare un processo avviato verso una verosimile soccombenza limita le spese di lite che conseguiranno alla soccombenza e pagare meno spese giudiziali è sicuramente un interesse pubblico (cui corrisponde anche il minor dispendio di energie giurisdizionali).
Anche sotto questo aspetto la sentenza appare allineata.
Resta il problema dei possibili diritti contrapposti del contribuente.
Una prima linea è quella di un possibile suo affidamento tutelabile. L’argomento è suggestivo ma, sembra, debole. Il contribuente ha la speranza ragionevole di vincere un ricorso se l’atto è viziato, ma cosa diversa è ritenere che egli abbia il diritto a non veder… eliminato il vizio. Delle due l’una: o il potere amministrativo può essere esercitato una volta sola, e allora il ritiro è illegittimo in radice, senza che rilevi l’aspetto soggettivo dell’affidamento. O l’atto viziato può essere ritirato e sostituito, e allora non si vede quale aspettativa tutelabile possa esservi. Al limite, come nel diritto amministrativo, si potrebbe stabilire un limite cronologico al ritiro, stabilendo che, decorso tale limite, il provvedimento si consolida. Tale approdo richiederebbe tuttavia una norma espressa, che manca nel diritto tributario.
Ugualmente, non sembra che il ritiro leda il diritto di difesa, in quanto tale. Il contribuente ha il pieno diritto di difendersi contro un atto invalido, ma non è che la eliminazione di questo lo leda giuridicamente. Anzi, quasi paradossalmente, eliminare il vizio è anche nell’interesse giuridico del contribuente (non nell’interesse materiale, ovviamente) e il fatto che egli sia stato costretto a una lite che poi si è rivelata inutile è certamente una lesione, ma certamente riparabile con il pieno e severo ristoro delle spese. Opinare l’invalidità del ritiro da questo punto di vista sarebbe una reazione eccessiva.
Allo stesso modo, la proliferazione dei giudizi, indubbia, ha come correttivo il severo regime delle spese (a carico dell’ente impositore, soccombente virtuale).
La lesione del diritto di difesa potrebbe sussistere qualora (come nel caso esaminato da Cass. 7335/2010, citata nella sentenza in commento) si trattasse di un ritiro parziale e il giudice pretendesse di dichiarare totalmente cessata la materia del contendere. In tal caso il contribuente verrebbe privato della possibilità di difendersi perché il riconoscimento di fondatezza di parte della sua domanda impedirebbe, abnormemente, che fosse decisa anche la parte di domanda riferita alla porzione di pretesa non ritirata. Detto più chiaramente, se il contribuente sostiene di dovere 0 invece di 100 e l’Amministrazione scende nella pretesa a 50, l’autotutela non può estinguere il giudizio (permanendo la lite sui 50 residui). Non è chi non veda, tuttavia, che in tale caso non sarebbe invalida la autotutela, ma la decisione di cessata materia del contendere. Non è quindi esatto che in questi casi ricorra un limite alla autotutela (che resta valida), ma un limite ai suoi effetti nella lite (che è cosa ovviamente diversa)
La sentenza è allineata anche a queste considerazioni
Tale soluzione parrebbe corretta anche nell’ipotesi, di scuola, della successione di sostituzioni, con atti sempre invalidi: qui potrebbe ricorrere il presupposto della temerarietà e la responsabilità processuale aggravata. L’invalidità dell’atto sostitutivo parrebbe, forse, sostenibile nei casi estremi di tipo persecutorio (in una sorta di stalking tributario).
Resta, per concludere, da dare atto della peculiarità della fattispecie esaminata dalla Suprema Corte. In effetti, in essa, se non ci si inganna, non si era assistito alla rinnovazione di un solo atto viziato (la notifica della cartella, o, al limite, la cartella) ma, diversamente, al ritiro e alla sostituzione del ruolo presupposto alla cartella, alla emissione di una nuova cartella e nuova notifica.
Se ci si passa la metafora, la situazione equivale a quella di chi, nella costruzione di una casa, a fronte della contestazione, principale, sulla solidità del secondo piano (la notifica della cartella) non si limiti ad abbatterlo e ricostruirlo (rinnovando la notificazione), ma abbatta e ricostruisca l’intero immobile (sostituendo anche ruolo e cartella).
La Corte, rilevando che anche il vizio del ruolo era stato allegato dal contribuente, assume che questa operazione non lederebbe alcun interesse e non presenterebbe alcuna ragione di illegittimità.
Ad essere pignoli, forse questa affermazione è condivisibile, ma merita una serie di precisazioni. Se era consentito comunque, nella fattispecie, rinnovare la cartella o la notifica, la prassi seguita è solo un, per così dire, overreacting: un correttivo eventualmente eccedente la necessità, ma legittimo.
Più complesso sarebbe se, invece, ma dalla sentenza non emerge, per qualsiasi ragione non si potesse più (per decadenza o altro) rinnovare la cartella o la notifica e, dall’altro, il vizio del ruolo non fosse stato dedotto.
In questo caso, la sostituzione del ruolo avrebbe potuto avere la funzione di un aggiramento della decadenza dal potere di rinnovare l’atto viziato (la cartella e la sua notificazione), non più consentito. In questa ipotesi, la prassi seguita sarebbe stata corretta solo se anche il ruolo fosse stato viziato. In questa ipotesi, ancora, non sarebbe affatto irrilevante, come invece assume la sentenza, verificare la sussistenza del vizio del ruolo (che in effetti non pare sussistere nel caso di omessa sottoscrizione della minuta di ruolo). Se il ruolo non fosse stato viziato (e, a maggior ragione, se tale motivo non fosse stato avanzato dal contribuente), la sua sostituzione sarebbe stata una abusiva rimessione nei termini a fronte di una decadenza maturata, per la cartella.
Un tema delicato, cui occorre prestare sempre attenzione.