L’IRPEF
(di Paolo Bernazzani – Andrea Venegoni)
SOMMARIO: 1. I redditi da lavoro autonomo – 2. I redditi da lavoro dipendente – 3. I redditi di impresa – 4. I redditi di capitale – 5. I redditi fondiari – 6. I redditi diversi – 6.1. In particolare: la plusvalenza di cui all’art. 67, comma 1, lett. b), t.u.i.r. – 6.2. Inclusione delle cessioni gratuite nella base imponibile – 6.3. L’imposta sostitutiva – 6.4. Plusvalenze da cessione di impresa familiare – 6.5. Cessione di azienda – 6.6. Cessioni di beni – 6.7. Capital gains – 6.8. Rateizzazione della plusvalenza.
1.I redditi da lavoro Secondo quanto previsto dall’art. 53 T.u.i.r. «sono redditi di lavoro autonomo quelli che derivano dall’esercizio di arti e professioni. Per esercizio di arti e professioni si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomo diverse da quelle considerate nel capo VI, compreso l’esercizio in forma associata di cui alla lettera c) del comma 3 dell’articolo 5».
E’ stato rilevato che vi sono quattro indicatori specifici del lavoro autonomo, da cui deriva la corrispondente qualificazione ai fini fiscali: la natura intellettuale dell’attività svolta, l’autonomia, l’abitualità e la non imprenditorialità.
La base imponibile è rappresentata dai compensi, in denaro o natura, percepiti nonché dalle plusvalenze dei beni strumentali, dedotte le spese sostenute nel periodo di imposta, inerenti all’arte o professione esercitata, e le minusvalenze dei beni strumentali. Il principio cui si ispira la tassazione del lavoro autonomo è, di regola, quello di cassa.
Peraltro, in tema di ritenute d’acconto sulle somme corrisposte a titolo di provvigioni, Sez. T, n. 2928/2018, Locatelli, Rv. 646903-01, ha affermato che l’art. 25-bis, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, fissa il principio di competenza e, quindi, le stesse devono essere scomputate nel periodo di imposta nel quale hanno contribuito a formare la base imponibile. Tuttavia, ove il contribuente effettui lo scomputo in un altro periodo di imposta e venga effettuato il conseguente recupero a tassazione, non è violato il principio di divieto di doppia imposizione, in ragione della possibilità di presentare istanza di restituzione della somma versata in eccedenza, entro il termine di decadenza di cui all’art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, decorrente, ex art. 2935 c.c., dalla data nella quale si è formato il giudicato sulla legittimità del recupero delle ritenute non effettuate nell’anno di competenza.
Il conseguimento del reddito di lavoro autonomo deve, naturalmente, essere provato. Il tema si pone in giurisprudenza, per esempio, con riguardo ai compensi di amministratori di società: in tale prospettiva, Sez. T, n. 16530/2018, Bernazzani, Rv. 649199-01, ha ribadito, al riguardo, il principio, già affermato in precedenza dalla Corte di legittimità, secondo il quale l’amministrazione finanziaria non può pretendere, presumendone la onerosità, di assoggettare a tassazione il compenso dell’amministratore di una società in mancanza di prova contraria da parte del contribuente, non potendo la stessa fondare tale pretesa su una presunzione, inconferente in presenza di un diritto disponibile, come quello dell’ amministratore al compenso da parte della società.
Quanto alle componenti deducibili dal reddito complessivo dichiarato occorre considerare Sez. 6-T, n. 321/2018, Luciotti, Rv. 647096-01) che ha stabilito la deducibilità dei contributi previdenziali obbligatori versati dai notai alla cassa nazionale del notariato, in quanto sono da considerare spese inerenti all’attività professionale svolta, essendo il relativo esborso una conseguenza del reddito prodotto. A tale riguardo, la Suprema Corte ha richiamato l’orientamento secondo cui non può limitarsi «il concetto di “inerenza” alle sole spese necessarie per la produzione del reddito ed escluderlo per quelle che sono una conseguenza del reddito prodotto. Tale distinzione non si rinviene nella legge e non è neppure ricavabile dall’aggettivo “inerente” usato dal legislatore, in quanto esso, per la sua genericità, postula un rapporto di intima relazione tra due cose o idee che si può verificare sia quando l’una sia lo strumento per realizzare l’altra sia quanto ne sia l’immediata derivazione» (cfr., tra le altre, Sez. T, n. 2781/2001, Amari, Rv. 544199 – 01). Non disconosce, la Corte di legittimità, che il citato principio è stato affermato con riferimento all’art. 50, comma 1, prima parte, della l. n. 597 del 1973, in materia di «redditi da lavoro professionale»; e tuttavia, rileva che il vigente art. 54 T.u.i.r., disciplinante la medesima materia, nel prevedere al comma 1 che «Il reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei compensi in denaro o in natura percepiti nel periodo di imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili, e quello delle spese sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione, salvo quanto stabilito nei successivi commi. I compensi sono computati al netto dei contributi previdenziali e assistenziali stabiliti dalla legge a carico del soggetto che li corrisponde», non esclude la deducibilità da tale tipo di reddito dei contributi repertoriali dei notai, permanendo invariata la loro inerenza all’esercizio professionale.
Secondo la citata pronuncia, dunque, se tali contributi non sono deducibili ai sensi della seconda parte del primo comma dell’art. 54 T.u.i.r., in quanto posti dalla legge – ex art. 12 della l. n. 220 del 1991 – direttamente a carico del professionista per aver iscritto l’atto a repertorio e non del cliente (e quindi corrisposti soltanto dal notaio, indipendentemente dall’effettiva riscossione del corrispettivo della prestazione e dalla eventuale gratuità della stessa), gli stessi lo sono, tuttavia, in base alla prima parte della disposizione in esame, ove si fa espresso riferimento alle «spese sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione», ovvero alle spese che, come quelle di cui trattasi, sono inerenti all’attività svolta. In tale quadro normativo, ha osservato infine il collegio decidente, neppure è risolutivo l’art. 10, comma 1, lett. e), T.u.i.r., posto che l’espressa previsione di deducibilità dal reddito complessivo dei «contributi previdenziali ed assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge» è prevista solo in via residuale, ovvero in mancanza di «deducibilità nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a formarlo».
2.I redditi da lavoro dipendente. In tema di redditi da lavoro dipendente, si pone spesso nella giurisprudenza della Corte di cassazione il problema della qualificazione delle somme corrisposte in virtù di rapporti di lavoro subordinato, anche dopo la cessazione dello stesso, e del loro regime di tassazioe
Sez. T, n. 15467/2018, Fasano, Rv. 649450-01, ha affrontato la questione relativa alla tassabilità, ed in particolare all’assoggettabilità a ritenuta, per l’anno di imposta 1979, degli interessi versati da un istituto di credito nel fondo di quiescenza degli impiegati. Riprendendo decisioni su questioni analoghe – come la sentenza Sez. 1, n. 7201/1991, Corda, Rv. 472847-01 – che ha ritenuto che gli interessi che un ente teatrale lirico corrisponde al fondo pensioni, sulle somme accreditate insieme alle quote capitali maturate a favore dei dipendenti, al termine dell’esercizio anziché alle scadenze previste, non sono assoggettabili ad IRPEG e ad ILOR, non essendo ravvisabile in relazione ad essi la soggettività tributaria del fondo e la sentenza 1, n. 12427/1991, Borruso, Rv. 474690-01 – secondo cui le somme versate dall’ente televisivo pubblico sul fondo di previdenza del proprio personale, ivi compresi gli interessi annuali, costituiscono reddito di lavoro per retribuzione differita ad appartengono al datore di lavoro medesimo, che le amministra autonomamente, sia pure sotto il vincolo della loro destinazione particolare, cosicché detti interessi non configurano reddito di capitale percepito dal fondo, tassabile nei confronti del datore di lavoro in qualità di sostituto di imposta, né reddito dei dipendenti aventi diritto al trattamento di quiescenza, in relazione ai quali il datore di lavoro ha parimenti l’indicata veste di sostituto di imposta, in quanto difetta il presupposto dell’effettiva percezione delle somme in questione da parte dei dipendenti (salva restando la successiva tassazione delle indennità liquidate alla cessazione del rapporto di lavoro) – , la Suprema Corte ha concluso che detti principi si attagliano anche alla fattispecie concernente l’imposizione degli interessi del fondo di previdenza complementare di un istituto di credito, il quale non può essere considerato come soggetto passivo di imposta, tenuto conto che il fondo stesso non è qualificabile come centro distinto di imputazione dei rapporti giuridici inerenti al trattamento di quiescenza e previdenza dei dipendenti: ciò in quanto tutte le somme, in qualsiasi provenienza e natura, ivi compresi gli interessi sugli importi precedentemente accumulati, non sono ricollegabili ad alcun rapporto giuridico che possa farle ritenere reddito di capitale, assoggettabile a specifica imposizione diretta, bensì integrano reddito di lavoro per retribuzione differita. Le somme erogate ai dipendenti al momento della cessazione del servizio, pertanto, non integrano una restituzione di accantonamenti già di pertinenza del personale e semplicemente tenuti in custodia e amministrati dal datore di lavoro, ma configurano prestazioni di natura sostanzialmente retributiva che trovano titolo immediato e diretto nel pregresso rapporto di lavoro.
Sez. T, n. 15853/2018, Crucitti, Rv. 649228-01 e Sez. 6-T, n. 16116/2018, Solaini, Rv. 649209-01, hanno affrontato ancora una volta la questione, molto dibattuta, della tassazione dei fondi di previdenza complementare, affermando che «In tema di fondi previdenziali integrativi, le prestazioni erogate in forma di capitale ad un soggetto che risulti iscritto, in epoca antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124, ad un fondo di previdenza complementare aziendale a capitalizzazione di versamenti e a causa previdenziale prevalente, sono soggette al seguente trattamento tributario: a) per gli importi maturati a decorrere dal 10 gennaio 2001 si applica interamente il regime di tassazione separata di cui agli artt. 16, comma 1, lett. a), e 17 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (nel testo vigente ratione temporis); b) per gli importi maturati fino al 31 dicembre 2000, invece, la prestazione è assoggettata a detto regime di tassazione separata solo per quanto riguarda la sorte capitale, costituita dagli accantonamenti imputabili ai contributi versati dal datore di lavoro e dal lavoratore e corrispondente all’attribuzione patrimoniale conseguente alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre si applica la ritenuta del 12,50%, prevista dall’art. 6 della l. 26 settembre 1985, 482, alle somme provenienti dalla liquidazione del cd. rendimento. Sono tali le somme derivanti dall’effettivo investimento del capitale accantonato sul mercato — non necessariamente finanziario — non anche quelle calcolate attraverso l’adozione di riserve matematiche e di sistemi tecnico- attuariali di capitalizzazione, al fine di garantire la copertura richiesta dalle prestazioni previdenziali concordate».
Sullo specifico tema della determinazione della base imponibile delle prestazioni erogate dai fondi di previdenza complementare per il personale degli istituti bancari, la Suprema Corte (Sez. 6-T, n. 124/2018, Carbone, Rv. 647095–01), ribadendo il proprio precedente orientamento, ha affermato che la stessa include anche i contributi versati dal dipendente, attesane la natura facoltativa e posta la riferibilità dell’esenzione fiscale di cui all’art. 51, comma 2, lett. a), del d.P.R. n. 917 del 1986 ai soli contributi previdenziali obbligatori.
Altro tema attinente alla tassazione del reddito da lavoro dipendente e molto dibattuto in giurisprudenza è quello relativo alla cd. stock option, o diritto di opzione per l’acquisto di azioni che vengono offerti a dipendenti di società di capitali. Poiché la legge consentiva la rivalutazione dei diritti di opzione, quando quest’ultima veniva esercitata e le azioni vendute, ottenendone una plusvalenza, il datore di lavoro assoggettava tale somma a ritenuta, che ai sensi dell’art. 51, comma 2, lett. g)-bis, del d.l. n. 262 del 2006, conv. in l. n. 286 del 2006, era calcolata dalla differenza tra il prezzo di vendita delle azioni ed il prezzo di esercizio dei diritti di opzione.
In questi casi, invece, accade normalmente che il dipendente ritenga che le somme percepite debbano essere assoggettate a tassazione in base alla disciplina vigente al momento della “assegnazione” delle stock options, e non a quella in vigore al momento della “assegnazione” delle “azioni”; di qui la presentazione di istanze di rimborso, pari alla differenza tra l’Irpef e le addizionali pagate (sul differenziale tra prezzo di vendita e prezzo di esercizio delle azioni) e l’imposta sostitutiva del 12,50 % applicabile sulla plusvalenza determinata come differenza tra il prezzo di vendita ed il prezzo di esercizio delle opzioni, aumentato del valore fiscalmente riconosciuto derivante dalla rivalutazione.
Sez. T, n. 16227/2018, D’Orazio, Rv. 649197-01, ha ribadito l’orientamento per il quale la disciplina di tassazione applicabile ratione temporis alle cosiddette stock options va individuata in quella vigente al momento dell’esercizio del diritto di opzione da parte del dipendente, indipendentemente dal momento in cui l’opzione sia stata offerta, atteso che l’operazione cui consegue la tassazione non va identificata nell’attribuzione gratuita del diritto di opzione, che non è soggetta a imposizione tributaria, ma nell’effettivo esercizio di tale diritto mediante l’acquisto delle azioni, che costituisce il presupposto dell’imposizione commisurata proprio sul prezzo delle stesse e che è rimesso alla libera scelta del beneficiato.
3.I redditi di impresa. Le norme sul reddito di impresa attengono, essenzialmente, a due profili: alla identificazione della fonte del reddito ed alle modalità di calcolo dello stesso.
Ai sensi dell’art. 55 T.u.i.r., in particolare, i redditi di impresa sono quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali, intese come quelle di cui all’art. 2195 c.c., esercitate per professione abituale, ancorché non esclusiva, nonché di quelle di cui alle lett. b) e c) dell’art 32 dello stesso Testo Unico che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma di impresa.
Sono poi redditi di impresa:
a)i redditi derivanti dall’esercizio di attività organizzate in forma d’impresa dirette alla prestazione di servizi che non rientrano nell’art. 2195 c.;
b)i redditi derivanti dall’attività di sfruttamento di miniere, cave, torbiere, saline, laghi, stagni e altre acque interne
c)i redditi dei terreni, per la parte derivante dall’esercizio delle attività agricole di cui all’art. 32 u.i.r., pur se nei limiti ivi stabiliti, ove spettino alle societa’ in nome collettivo e in accomandita semplice nonche’ alle stabili organizzazioni di persone fisiche non residenti esercenti attività di impresa.
Quanto al secondo profilo in esame, la riforma di cui al d.lgs. n. 344 del 2003 ha trasferito all’interno dell’IRES la disciplina di base sulla determinazione del reddito di impresa, che in precedenza si trovava nel decreto sull’IRPEF, cosicché oggi per una visione complessiva della determinazione del reddito di impresa occorre riferirsi alla disciplina di base, contenuta nel testo unico sull’IRES, in combinazione con alcune norme speciali dettate per le persone fisiche e le società di persone, che si trovano nella disciplina del T.u.i.r. in materia di IRPEF.
Nel vasto panorama di decisioni che contrassegna la più recente giurisprudenziale di legittimità, si possono cogliere alcune linee di tendenza ed alcuni arresti di particolare significato che trascendono i confini di una rilevanza puramente casistica delle singole decisioni.
In tema di reddito derivante da opere e servizi ultrannuali e di presupposti per l’adozione del “metodo contabile del costo”, Sez. T, n. 15827/2018, Condello, Rv. 649190-01, ha affrontato la questione relativa all’applicazione del comma 5 dell’art. 60 del T.u.i.r., a tenore del quale le imprese che contabilizzano le opere, forniture e servizi, valutando le rimanenze al costo e imputando i corrispettivi all’esercizio nel quale sono state consegnate opere o ultimati servizi e forniture, possono determinare il reddito con tale metodo, ossia effettuare la valutazione al costo, qualora siano state a ciò espressamente autorizzate dall’Amministrazione finanziaria.
A tal fine, come previsto dall’art. 9 del d.P.R. n. 42 del 1988 (articolo che è stato abrogato dall’art. 18, comma 4, del d.lgs. 18 novembre 2005 n. 247), l’impresa deve inoltrare richiesta di autorizzazione all’ufficio delle imposte ai fini della adozione del “metodo contabile del costo” e la stessa deve intendersi accolta se non contestata dall’Amministrazione nel termine di tre mesi. Il predetto art. 9 subordina, poi, l’efficacia della autorizzazione all’adozione da parte del contribuente del metodo contabile previsto dal comma 5 dell’art. 60 del T.u.i.r., ma non contiene alcun riferimento al comma 6 della medesima disposizione normativa, che non disciplina l’applicazione del “metodo contabile”, ma pone l’onere a carico del contribuente, al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi, di allegare un prospetto contenente la indicazione di una serie di elementi necessari alla individuazione delle opere ed alla loro valutazione. In tale quadro normativo, la Corte di legittimità ha affermato che le norme sopra richiamate non prevedono la decadenza dal diritto di adottare il metodo contabile del costo nel caso in cui il contribuente non abbia presentato il prospetto previsto dal comma 6 dell’art. 60 del T.u.i.r., atteso che la efficacia della autorizzazione prevista dal comma 5 è condizionata alla sola adozione del metodo contabile ivi previsto. Ciò comporta che il rilascio della autorizzazione prevista dall’art 60, comma 5, del d.P.R. n. 917 del 1986 e la efficacia della stessa non sono subordinati al disposto del comma 6 dello stesso art. 60 del T.u.i.r.
Sempre in tema di imposte sui redditi di impresa, Sez. T, n. 8907/2018, D’Orazio, Rv. 647707–01, ha stabilito che anche le imprese minori, che fruiscono del regime di contabilità semplificata, ai sensi dell’art. 18 del d.P.R. n. 600 del 1973, devono indicare ogni anno nel registro degli acquisti, tenuto ai fini IVA, il valore delle rimanenze, senza limitarsi ad annotare quello globale, ma distinguendo i beni per categorie omogenee, del medesimo tipo e della stessa quantità, secondo la disciplina tributaria della valutazione delle rimanenze dettata dall’art. 62 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 597.
Invero, il tenore testuale dell’art. 18, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, che disciplina le modalità di tenuta della contabilità semplificata per le “imprese minori” prevede che «i soggetti che fruiscono dell’esonero, entro il termine stabilito per la presentazione della dichiarazione annuale, indicano nel registro degli acquisti tenuto ai fini dell’imposta sul valore aggiunto il valore delle rimanenze». Secondo la Corte di legittimità, tale norma disciplina soltanto l’aspetto formale della condotta che deve essere tenuta dalle imprese minori in tema di indicazione delle rimanenze, mentre il contenuto sostanziale della stessa è disciplinato dall’art. 62, comma 1, del d.P.R. n. 597 del 1973, il quale dispone che «le rimanenze dei beni indicati nel comma 1 dell’art. 53 si valutano distintamente per categorie omogenee, formate da tutti i beni del medesimo tipo e della medesima qualità».
In tale prospettiva, la decisione in esame sottolinea che, superando una isolata ed ormai risalente decisione contraria (Sez. I, Carbone V., n. 4307/1992, Rv. 476679-01), la quale aveva ritenuto che per le imprese minori non fosse necessario indicare le rimanenze in base a categorie omogenee, le pronunce più recenti (cfr., in particolare, Sez. T, n. 22174/2006, Ruggiero, Rv. 593937-01; Sez. T, n. 9946/2003, Marigliano, Rv. 564465 – 01) si sono espresse per l’applicazione dell’art. 62, comma 1, del d.P.R. n. 597 del 1973, anche alle imprese minori di cui all’art. 18, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, chiarendo che le stesse devono indicare nel registro degli acquisti tenuto ai fini Iva il valore delle rimanenze, la cui valutazione deve essere fatta distintamente per categoria omogenee, formate da tutti i beni del medesimo tipo e delle medesima quantità, con la possibilità tuttavia, di includere nella stessa categoria beni dello stesso tipo ma di diversa qualità, i cui valori unitari non divergano sensibilmente, e beni di diverso tipo aventi uguale valore unitario. Muovendo da tali premesse, la Corte di cassazione ha concluso che, poiché le rimanenze di un periodo di imposta costituiscono le giacenze del periodo di imposta successivo, «è evidente che la nozione tributaria di “rimanenza” non è data da un numero esprimente un incontrollabile valore globale, poiché, della rimanenza, la norma tributaria postula necessariamente una articolazione di beni per tipi, qualità e valore unitario».
Con riferimento alla determinazione della base imponibile, la Suprema Corte si è soffermata sulle questioni concernenti i criteri di imputazione temporale dei canoni di locazione percepiti dal contribuente. In particolare, Sez. 6 – T, n. 11556/2018, Mocci, Rv. 648379 – 01, muovendo dalla considerazione che, in tema di reddito d’impresa, le regole sull’imputazione temporale dei componenti di reddito, dettate in via generale dall’art. 75 del d.P.R. n. 917 del 1986, sono tassative ed inderogabili, non essendo consentito al contribuente di ascrivere a proprio piacimento un componente positivo o negativo di reddito ad un esercizio diverso da quello individuato dalla legge come “esercizio di competenza” (cfr. anche Sez. 6-T, n. 28159/2013, Di Blasi, Rv. 629406 – 01), ha affermato che i ricavi derivanti dai canoni di locazione devono considerarsi conseguiti, ai sensi dell’art. 109, comma 2, lett. b), del d.P.R. n. 917 del 1986, alla data di maturazione dei medesimi, in quanto, fino all’eventuale risoluzione del contratto, non possono essere qualificati componenti positivi dei quali non sia certa l’esistenza o la determinazione dell’ammontare, a prescindere dalla concreta corresponsione.
Con riferimento all’ipotesi di trasferimento a titolo oneroso di una licenza per l’esercizio del servizio di taxi, Sez. T, n. 4944/2018, Greco, Rv. 647549–01, ha affermato che, ai sensi dell’art. 7 della l. 15 gennaio 1992, n. 21(«Legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea») i titolari della predetta licenza sono qualificati come «titolari di impresa artigiana di trasporto» (art. 7), sicché, nel caso di cessione a titolo oneroso di detta licenza, si realizza una plusvalenza che concorre alla formazione del reddito ex art. 86, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986: ne deriva, fra l’altro, che, ove il contribuente ometta di rispondere ai questionari previsti dall’art. 32, comma 1, nn. 3 e 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, in tal modo impedendo od ostacolando la verifica dei redditi prodotti, l’Ufficio può effettuare l’accertamento induttivo ex art. art. 39, comma 1, lett. a), del predetto decreto, utilizzando dati e notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di avvalersi anche di presunzioni prive di requisiti di gravità, precisione e concordanza.
Quanto alle problematiche concernenti i componenti negativi di reddito d’impresa, la Suprema Corte (Sez. T, n. 12676/2018, Crucitti, Rv. 648618–01) ha nuovamente affrontato il dibattuto tema rappresentato dalla distinzione fra spese di rappresentanza e spese di pubblicità, affermando che il relativo criterio discretivo «deve essere individuato negli obbiettivi, anche strategici, perseguiti mediante le stesse, che, nella prima ipotesi, coincidono con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio, nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società, mentre, nell’altra, consistono in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, concernente la produzione realizzata in un determinato contesto».
In tale dimensione argomentativa, la Corte di legittimità si ricollega esplicitamente al principio, più volte affermato (cfr., tra le altre, Sez. T, n. 10910/2015, Marulli, Rv. 635641 – 01; Sez. T, n. 8121/2016, Cirillo E., Rv. 639437-01), secondo cui costituiscono spese di rappresentanza quelle affrontate per iniziative volte ad accrescere il prestigio e l’immagine dell’impresa ed a potenziarne le possibilità di sviluppo, mentre vanno qualificate come spese pubblicitarie o di propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque dell’attività svolta. Sulla base di tali premesse, osserva la decisione in esame, «si ritiene che debbano farsi rientrare nelle spese di rappresentanza quelle effettuate senza che vi sia una diretta aspettativa di ritorno commerciale, e che vadano, invece, considerate spese di pubblicità o propaganda quelle altre sostenute per ottenere un incremento, più o meno immediato, della vendita di quanto realizzato nei vari cicli produttivi ed in certi contesti, anche temporali (Sez. T, n. 7803/2000, Merone, Rv. 537410-01). Il criterio discretivo va, dunque, individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi che, per le spese di rappresentanza, può farsi coincidere con la crescita d’immagine ed il maggior prestigio nonché con il potenziamento delle possibilità di sviluppo della società; laddove, per le spese di pubblicità o propaganda, di regola, consiste in una diretta finalità promozionale e di incremento commerciale, normalmente, concernente la produzione realizzata in un determinato contesto» (cfr. Sez. T, n. 21977/2015, Marulli, Rv. 637087 – 01, in riferimento alle spese di sponsorizzazione, inquadrate fra le spese di rappresentanza, ove il contribuente non provi che all’attività sponsorizzata sia riconducibile una diretta aspettativa di ritorno commerciale).
La predetta sentenza n. 12676/2018, si segnala, altresì, per un pertinente richiamo alla giurisprudenza europea, nella quale, con riferimento all’IVA, si afferma che la prestazione pubblicitaria comporta la trasmissione di un messaggio destinato a informare il pubblico della esistenza e della qualità di un prodotto o del servizio di cui trattasi allo scopo di incrementare le vendite (C. Giust. 17.1993, C-68/92, C-69/92, C- 73/92). Analogamente, si rimarca come in dottrina si rilevi che le spese di rappresentanza derivano dalla necessità di attuare comportamenti idonei a mantenere alto sul mercato il nome dell’impresa, con ciò, in sostanza, perseguendosi lo stesso fine delle spese di pubblicità e propaganda, ma con la differenza che le spese di rappresentanza non sono finalizzate alla promozione della commercializzazione di un prodotto, alla conquista di un mercato o alla diffusione di una specifica immagine commerciale, ma, in buona sostanza, sono spese per le quali non ci si attende uno specifico ritorno sul versante economico, ma si riferiscono solo all’immagine – anche in forma sfumata – dell’impresa, riferimento che può essere – come nella maggior parte dei casi è – tacito, manifestandosi in comportamenti atti a porre l’accento su elementi quali il decoro e l’importanza.
Sempre in tema di componenti negativi del reddito d’impresa, Sez. T, n. 3170/2018, Luciotti, Rv. 646933–01, ha statuito che le spese sostenute per la manutenzione, riparazione, trasformazione ed ammodernamento di beni strumentali, sono deducibili nel limite del 5 per cento del costo complessivo degli stessi, ex art. 102, comma 6, del d.P.R. n. 917 del 1986, non assumendo rilevanza, a tal fine, il carattere eccezionale di dette spese. La citata norma del T.u.i.r., invero, stabilisce (con formulazione identica al previgente art. 67, comma 7, che «le spese di manutenzione, riparazione, ammodernamento e trasformazione, che dal bilancio non risultino imputate ad incremento del costo dei beni ai quali si riferiscono, sono deducibili nel limite del 5 per cento del costo complessivo di tutti i beni materiali ammortizzabili quale risulta all’inizio dell’esercizio dal registro dei beni ammortizzabili […] L’eccedenza è deducibile per quote costanti nei cinque esercizi successivi. Per specifici settori produttivi possono essere stabiliti, con decreto del Ministro delle finanze, diversi criteri e modalità di deduzione […]». In tale quadro normativo, la Corte di cassazione si è espressamente ricollegata al principio giurisprudenziale (cfr. Sez. T, n. 7885/2016, Locatelli, Rv. 639623-01) secondo cui la citata disposizione normativa «consente all’imprenditore di esercitare l’opzione tra la capitalizzazione delle spese incrementative, quale aumento del costo del bene ammortizzabile, ovvero la loro deduzione immediata entro i limiti quantitativi prefissati (deduzione di importo non superiore al 5% del costo complessivo dei beni ammortizzabili; deduzione dell’eccedenza per quote costanti nei cinque esercizi successivi)»; conseguentemente, il collegio ha ritenuto errata l’interpretazione adottata dall’Agenzia ricorrente, secondo la quale le spese di manutenzione sostenute nella specie dalla società contribuente, in quanto straordinarie e come tali di natura incrementativa del valore dei beni immobili interessati, dovevano obbligatoriamente essere imputate ad aumento dei costi dei beni ammortizzabili e dedotti con il meccanismo previsto dall’art. 102, comma 2, del d.P.R. n. 917 del 1986 e dal D.M. 31 dicembre 1988, «senza neanche specificare se nel caso in esame risultassero dal bilancio imputate ad incremento del costo dei beni cui si riferiscono».
Quanto alla particolare tipologia di spese costituite dagli esborsi correlati ad un bene immobile preso in locazione, Sez. T, n. 6288/2018, Scarano, Rv. 647466 – 01, ha statuito che «in tema di determinazione del reddito di impresa, ai sensi dell’art. 74, comma 3, del d.P.R. n. 917 del 1986 (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 344 del 2003), le spese di manutenzione straordinaria dell’immobile condotto in locazione possono essere iscritte nell’attivo, ex art. 2426, comma 1, n. 5), c.c., invece che essere imputate in conto economico, come componenti negative del reddito, nell’esercizio in cui sono state sostenute, ove l’imprenditore ritenga, in base ad una scelta fondata su canoni di discrezionalità tecnica, di capitalizzarle in vista di un successivo ammortamento pluriennale, purché indichi specifici criteri, commisurati alla durata dell’utilità del bene, al fine di stabilire la quota di costo gravante su ciascun esercizio». In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la decisione impugnata che, in presenza di un piano di ammortamento redatto dalla società in considerazione della durata legale del contratto di locazione, aveva ritenuto legittima la ripresa a tassazione che aveva invece considerato anche il successivo periodo di rinnovo dello stesso.
Ai fini dell’enunciazione del riportato principio, la Corte di cassazione ha preso le mosse dal principio secondo cui la deducibilità delle spese relative a più esercizi è subordinata, ai sensi dell’art. 74, comma 3, del d.P.R. n. 917 del 1986, all’indicazione degli specifici criteri cui commisurare la durata dell’utilità del bene, al fine di stabilirne la quota di costo imputabile a ciascun esercizio (Sez. T, n. 14326/2009, Bognanni, Rv. 608682 – 01): invero, a differenza dell’art. 67, comma 2, del d.P.R. n. 917 del 1986, la suindicata norma non prevede alcuna tipizzazione dei criteri di esposizione di tali componenti negativi del reddito, con la conseguenza che la ripartizione pluriennale non può avere luogo semplicemente applicando i criteri legali stabiliti per gli ammortamenti ma il contribuente ha l’onere di indicare criteri specifici commisurati alla durata dell’utilità del bene, al fine di stabilire la quota di costo imputabile a ciascun esercizio (Sez. T, n. 8344/2006, Altieri, Rv. 588621-01). In tale quadro ricostruttivo, con particolare riferimento alle spese per manutenzione e riparazioni nonché ad opere e migliorie (in particolare, per il rifacimento di impianti elettrici ed idraulici degli immobili condotti in locazione), la giurisprudenza di legittimità aveva già precisato che i costi di natura straordinaria sopportati dal conduttore in vista della relativa utilità pluriennale ai sensi dell’art. 2426, comma 1, n. 5, c.c. possono (previo consenso del collegio sindacale, ove esistente) essere iscritti nell’attivo, anziché essere imputati in conto economico come componenti negativi del reddito di esercizio in cui sono sostenuti, ove la società ritenga, in base ad una scelta fondata su criteri di discrezionalità tecnica, di capitalizzarli in vista di un successivo ammortamento pluriennale anziché far gravare i costi interamente sull’esercizio in cui sono stati sostenuti; e si era precisato che tale valutazione, ai fini della graduazione del beneficio, deve tenere conto che l’iscrizione di queste spese all’attivo dello stato patrimoniale è consentita, oltre che dall’utilità pluriennale di cui siano causa immediata e diretta, anche dalla circostanza che esse non abbiano avuto, come contropartita, l’incremento di valore di specifici beni o diritti anch’essi iscritti all’attivo (Sez. T, n. 24939/2013, Perrino, Rv. 628609 – 01).
In quest’ultimo caso, la Corte di cassazione ha concluso che, in presenza di un piano di ammortamento redatto in relazione alla durata contrattuale della locazione, deve tenersi conto soltanto della prima scadenza e non anche del periodo di rinnovo, in quanto commisurata alla possibilità di utilizzazione delle opere in oggetto; di qui l’illegittimità della ripresa a tassazione da parte dell’Amministrazione finanziaria, sull’assunto che la contribuente avrebbe dovuto considerare la rinnovazione automatica del contratto e, dunque, la durata comprensiva del primo periodo di rinnovo.
Con riferimento alla deducibilità delle spese sostenute dall’impresa utilizzatrice di beni concessi in leasing, secondo Sez. T, n. 8897/2018, Giudicepietro, Rv. 647706-01, in assenza di una specifica disciplina, occorre fare riferimento al criterio generale di cui all’art. 75 del d.P.R. n. 917 del 1986 (ora art. 109 del medesimo d.P.R.), secondo cui, ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza, le spese “dipendenti da contratti di locazione, mutuo, assicurazione ed altri contratti da cui derivano corrispettivi periodici” si considerano sostenute “alla data di maturazione dei corrispettivi”.
In base a tale regola generale, i canoni di leasing sono deducibili per competenza alla data di maturazione dei corrispettivi in relazione alla durata del contratto di locazione finanziaria.
Nell’ipotesi di leasing traslativo di immobile in corso di costruzione o ristrutturazione, tale regola vale anche per i canoni di prefinanziamento, la cui corresponsione è spesso prevista contrattualmente in favore del concedente nel corso della realizzazione o dell’adeguamento dell’opera, e per gli interessi passivi, corrisposti prima della consegna, che devono essere considerati afferenti al bene per il quale sono stati sostenuti e, di conseguenza, quali oneri di diretta imputazione, dedotti pro quota, mediante la tecnica contabile del risconto, per l’intera durata del contratto, a partire dal momento della consegna del bene.
Nell’enunciare tale principio, la Corte di cassazione ha valorizzato il rilievo che «nel caso di leasing traslativo, il bene oggetto del contratto rimane di proprietà del concedente sin quando l’utilizzatore non esercita il diritto di opzione ed il canone di locazione del bene, proprio in previsione del suo futuro acquisto, comprende una quota del prezzo del bene stesso. Pertanto, applicando il principio della competenza, i costi di acquisizione del bene, da considerarsi oneri inerenti allo stesso, dovranno necessariamente essere ripartiti sulle stesse annualità e dovranno essere dedotti dall’utilizzatore, con la tecnica contabile del risconto, pro quota per l’intera durata del contratto a partire dal momento della consegna dell’immobile. Eguali considerazioni valgono anche per gli interessi passivi, dovuti dalla futura società utilizzatrice alla concedente prima della consegna del bene, nella fase della costruzione dello stesso. In particolare, nella fattispecie del leasing cosiddetto traslativo l’oggetto materiale appartiene al concedente sino al momento in cui viene esercitato il diritto di riscatto dello stesso da parte del terzo, per cui tutti i costi recuperati dall’ufficio vanno considerati costi afferenti al bene specifico per il quale sono stati sostenuti, e, quindi, rappresentano “oneri di diretta imputazione” perché particolari di ciascun bene. Una diversa qualificazione della fattispecie non terrebbe conto dell’unitarietà funzionale del leasing in costruendo, che giustifica l’imposizione di oneri finanziari a carico del futuro utilizzatore già nella fase della costruzione del bene».
Con riferimento alle spese sostenute per corsi di formazione e di aggiornamento del personale, Sez. T, n. 6265/2018, Esposito, Rv. 647464–01, ha affermato che le stesse rientrano tra quelle per “studi e ricerche” di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 917 del 1986 (nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 344 del 2003), atteso che l’ampiezza letterale e logica del riferimento agli “studi” ricomprende tutti gli esborsi finalizzati al potenziamento dell’impresa per il tramite di energie intellettuali, senza distinguere a seconda che l’attività di studio riguardi il miglioramento dell’organizzazione aziendale ovvero della competenza delle persone che in essa collaborano, con la conseguenza che è facoltà del contribuente scegliere se dedurre tali spese nell’esercizio di competenza, ovvero ripartirle per quote costanti (nell’esercizio stesso e) negli esercizi successivi (non oltre il quarto).
In tema di svalutazione dei crediti, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, è noto che l’art. 106, commi 3 e 4, del d.P.R. n. 917 del 1986 consente agli enti creditizi e finanziari di cui al d.lgs. n. 87 del 1992 di dedurre in ciascun esercizio il valore dei crediti impliciti nei contratti di locazione finanziaria risultanti in bilancio nella misura percentuale prevista al comma 1 del detto art. 106 (comma 3: «Per gli enti creditizi e finanziari di cui al decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 87, le svalutazioni dei crediti risultanti in bilancio, per l’importo non coperto da garanzia assicurativa, che derivano dalle operazioni di erogazione del credito alla clientela, compresi i crediti finanziari concessi a Stati, banche centrali o enti di Stato esteri destinati al finanziamento delle esportazioni italiane o delle attività ad esse collegate, sono deducibili in ciascun esercizio nel limite dello 0,60 per cento del valore dei crediti risultanti in bilancio, aumentato dell’ammontare delle svalutazioni dell’esercizio», prevedendo specificamente il successivo comma 4 che «Per gli enti creditizi e finanziari nell’ammontare dei crediti si comprendono anche quelli impliciti nei contratti di locazione finanziaria»).
In tale prospettiva, Sez. T, n. 956/2018, Luciotti, Rv. 646911 – 01, ha escluso che possa assumere rilevanza sul plafond di deducibilità di tali crediti il grado di rischiosità degli stessi, anche desunto dalla tipologia dei soggetti debitori, ovvero la distinzione tra soggetti ricompresi o meno nel sistema bancario.
Con la medesima decisione (Rv. 646911 – 02), la Suprema Corte ha affermato inoltre il principio secondo cui «le minusvalenze risultanti dalla differenza tra il costo residuo dei beni mobili concessi in locazione finanziaria ad utilizzatori inadempienti (con conseguente risoluzione dei relativi negozi) e quello previsto nei nuovi contratti di locazione, costituiscono perdite su crediti impliciti nei predetti contratti, ex art. 106, comma 4, del d.P.R. n. 917 del 1986, deducibili a norma dell’articolo 101 del medesimo decreto».
In motivazione, la Corte di legittimità ha ritenuto infondata la tesi dell’Agenzia ricorrente secondo cui la fattispecie avrebbe dovuto essere regolata dalle disposizioni sull’ammortamento dei beni concessi in locazione finanziaria, contenute nell’art. 102, comma 7, T.u.i.r., (che consente all’impresa concedente di dedurre in ciascun esercizio tali quote nella misura che risulta dal piano di ammortamento finanziario), così disconoscendo l’equiparazione ai fini fiscali dei contratti di locazione finanziaria ai crediti impliciti, ai sensi dell’art. 106, comma 4, T.u.i.r., come, peraltro, ribadito in diversi documenti di prassi: in particolare, nella circolare n. 137/E del 15/05/1997 del M.E.F. e la risoluzione dell’A.d.E. 175/E del 12/08/2003. Nella specie, risultava che i contratti di locazione finanziaria erano stati risolti e che la società contribuente, ottenuta la disponibilità dei beni, li aveva concessi in locazione a terzi, cosicché non può esservi dubbio che, non potendo più la stessa chiedere l’adempimento, il credito implicito di quel contratto doveva ritenersi con certezza perduto.
Infine, quanto alla distinzione fra regime ordinario e regime forfetario di determinazione del reddito di impresa, va richiamata la decisione della Suprema Corte (Sez. T, n. 1126/2018, Tedesco, Rv. 646698 – 01) secondo la quale la regola – stabilita dall’art. 78, comma 4, del d.P.R. n. 917 del 1986 (ora art. 56, comma 5) – che consente al contribuente che esercita un’attività di allevamento di animali di optare, in sede di dichiarazione dei redditi, per il regime ordinario di determinazione del reddito di impresa, così rendendo facoltativo il regime forfetario, altrimenti operante (per la parte che eccede i limiti di cui al comma 2, lett. b), dell’art. 32 del T.u.i.r., già art. 29, comma 2, lett. b) vale esclusivamente nelle ipotesi, fisiologiche, di corrispondenza tra reddito dichiarato e reddito effettivo dell’impresa di allevamento, non anche allorché sussistono i presupposti per l’accertamento induttivo di cui all’art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973. Di qui la ritenuta legittimità della ricostruzione induttiva del reddito di impresa, nella specie operata sulla base di accertamenti bancari, in relazione ad un contribuente che, pur avendo superato il limite di cui al citato art. 32, comma 2, lett. b), aveva provveduto a dichiarare esclusivamente il reddito agrario, omettendo di evidenziare che si era in presenza di una situazione nella quale, accanto al reddito agrario, era stato conseguito anche un reddito di impresa.
4. I redditi di capitale. I redditi di capitale costituiscono una categoria alla quale il legislatore non attribuisce una definizione fiscale autonoma, provvedendo invece a fornire, all’art. 44, comma 1, u.i.r., una elencazione , all’interno della quale, secondo una classificazione adottata dalla dottrina, si possono individuare due principali, per quanto non onnicomprensivi, gruppi di redditi, l’uno relativo ai proventi derivanti dalla partecipazione in società ed enti, come i dividendi distribuiti dalle società di capitali; l’altro riferito agli interessi e altri proventi derivanti da mutui e da altre forme di impiego del capitale. L’elencazione legislativa contempla, inoltre, una previsione residuale (art. 44, lett. h) t.u.i.r.), avente ad oggetto i proventi derivanti «da altri rapporti aventi per oggetto l’impiego del capitale».
Occorre evidenziare che non rientrano nella categoria dei redditi da capitale gli eventuali proventi derivanti dalla differenza tra il costo di titoli ed il ricavo conseguito per effetto della loro negoziazione, ossia le plusvalenze da capital gain, ricadenti nei c.d. redditi diversi.
Il più recente intervento nomofilattico della Corte di legittimità in materia ha riguardato, in particolare, il tema dei crediti di imposta accordati al socio sugli utili distribuiti da società ed enti, ai sensi dell’art. 14, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986.
Sul punto, Sez. T, n. 12297/2018, Dell’Orfano, Rv. 648203 – 01, ha affermato che tale credito di imposta, oltre a soggiacere alle condizioni stabilite dall’art. 105 del medesimo d.P.R., in assenza delle quali non può aver luogo la sua attribuzione, incontra un doppio limite, rappresentato dal calcolo del credito in percentuale sugli utili della società partecipata, e non già sull’imposta pagata, e dal suo riconoscimento fino a concorrenza dell’imposta effettivamente assolta dalla società, senza che ciò comporti alcuna duplicazione d’imposta, risultando anzi frustrata la sua funzione, qualora al socio fosse riconosciuto un credito per un’imposta che la società non ha pagato affatto.
In merito alla peculiare dinamica impositiva del reddito da partecipazione ed ai correlati dubbi in ordine alla violazione del principio del divieto di doppia imposizione, di cui all’art. 67 del d.P.R. n. 600 del 1973, Sez. 6-T, n. 13503/2018, Luciotti, Rv. 648690–01, ha ritenuto che l’operatività del divieto di doppia imposizione postula la reiterata applicazione della medesima imposta in dipendenza dello stesso presupposto; tale condizione non si verifica in caso di duplicità meramente economica di prelievo sullo stesso reddito, come quella che si realizza, in caso di partecipazione al capitale di una società commerciale, con la tassazione del reddito sia ai fini dell’IRPEG, quale utile della società, sia ai fini dell’IRPEF, quale provento dei soci, attesa la diversità non solo dei soggetti passivi, ma anche dei requisiti posti a fondamento delle due diverse imposizioni.
5.I redditi fondiari. I redditi fondiari, secondo quanto prevede l’art. 25 u.i.r., sono quelli «inerenti ai terreni e ai fabbricati situati nel territorio dello Stato che sono o devono essere iscritti, con attribuzione di rendita, nel catasto dei terreni o nel catasto edilizio urbano».
Con particolare riferimento alla determinazione della rendita catastale delle unità immobiliari destinate a centrali eoliche realizzate in epoca antecedente al 1° gennaio 2016, la Suprema Corte (Sez. 6 – T, n. 888/2018, Napolitano, Rv. 648516 – 01) ha affermato che deve essere utilizzato il costo medio infracensuario, dovendo poi i costi di ricostruzione, come determinati, delle diverse strutture, impianti fissi e sistemazioni esterne, essere ricondotti all’epoca censuaria delle stime catastali (biennio 1988-89) mediante l’indice FOI pubblicato dall’ISTAT, attesa l’assenza di ulteriori indici dei prezzi specifici per tale tipologia di opere.
6. I redditi La categoria dei «redditi diversi» ha carattere residuale e ricomprende una serie di ipotesi reddituali eterogenee, non riconducibili alle tipologie di reddito appartenenti alle categorie tipiche. A titolo esemplificativo circa la natura composita della categoria, fra gli arresti giurisprudenziali più recenti va richiamata Sez. T, n. 31026/2017, Esposito, Rv. 646683 –01, secondo cui anche i proventi derivanti da fatti illeciti, qualora non siano classificabili nelle categorie reddituali di cui all’art. 6, comma 1, del d.P.R. n. 917 del 1986, vanno, comunque, considerati redditi diversi, in base a quanto espressamente stabilito dall’art. 36, comma 34-bis, del d.l. n. 223 del 2006, conv. nella l. n. 248 del 2006, norma, quest’ultima, avente efficacia retroattiva, in quanto di interpretazione autentica dell’art. 14, comma 4, della l. n. 537 del 1993.
Tra i «redditi diversi» rientrano, in particolare, alcune ipotesi riconducibili alla nozione di plusvalenza, intesa quale differenza positiva tra un valore iniziale ed un valore finale; in ambito tributario, la stessa è espressione di una ricchezza prodotta, ed è perciò oggetto di attenzione da parte del legislatore.
6.1 In particolare: le plusvalenze di cui all’art. 67, comma 1, lett. b), T.u.i.r. Ai fini delle imposte dirette, fra le varie ipotesi che determinano plusvalenze, vanno particolarmente considerate quelle individuate dall’art. 67, comma 1, b), T.u.i.r., ossia le plusvalenze:
1)realizzate mediante cessione onerosa di immobili acquistati o costruiti da non più di 5 anni, esclusi quelli acquisiti per successione e quelli destinati ad abitazione principale
2)in ogni caso, realizzate a seguito di cessione onerosa di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della
L’espressione “in ogni caso” della seconda parte della norma potrebbe essere interpretata nel senso che in questa ipotesi è irrilevante il titolo di proprietà del terreno (acquisto o successione) e il periodo in cui si è protratta la proprietà (5 anni o meno); quindi, la plusvalenza in questo caso è tassabile indipendentemente dal fatto che il terreno sia stato acquisito per successione e sia stato oggetto di proprietà per più di 5 anni.
L’altro elemento costitutivo della pretesa tributaria è che il terreno sia “suscettibile di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione”. “Suscettibile di utilizzazione edificatoria” sembra essere qualcosa di meno del concetto di “edificabile” perché quest’ultimo sembra voler riferirsi alla possibilità in concreto, determinata per strumento urbanistico specifico, di edificare, mentre il primo alla potenzialità, sulla base di strumenti urbanistici più generali. Inoltre la norma non contiene alcuna ulteriore distinzione in merito alle caratteristiche del terreno; sembra irrilevante, quindi, il fatto che esso sia urbano o agricolo; l’essenziale è che sia suscettibile di edificazione e, in questo senso, anche un terreno agricolo potrebbe essere edificabile.
La ratio dell’art. 67 è tassare una ricchezza prodotta; proprio per questo, il legislatore considera in questa norma le cessioni infraquinquennali di immobili, perché si presume in tali operazioni un intento speculativo, consistendo in operazioni in cui un soggetto realizza o acquista la proprietà di un immobile e nel giro di 5 anni lo rivende, evidenziando così un fine speculativo dell’operazione. Per converso, la stessa norma esclude dalla propria operatività gli acquisti per successione o le abitazioni principali, proprio perché in questo caso il titolo in base al quale si è divenuti proprietari o la destinazione di un immobile che viene rivenduto entro 5 anni esclude, per sua natura, un intento speculativo all’origine. Essa considera, inoltre, le cessioni di terreni edificabili, poiché nelle medesime si presume un incremento di valore dell’immobile per il solo motivo che lo stesso è divenuto edificabile, ed ai fini di tale ipotesi, a differenza della precedente, è irrilevante che la cessione sia infraquinquennale o che il terreno sia pervenuto per successione. La ricchezza prodotta non deriva qui da un intento speculativo, ma da una caratteristica intrinseca del bene.
Quanto al riferimento agli “strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione”, va detto che prima del 2006 la questione fu a lungo dibattuta in giurisprudenza, tanto da avere richiesto anche un intervento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione. Il dibattito, in realtà, si sviluppò principalmente ai fini dell’applicazione delle imposte indirette, ed in particolare l’imposta di registro e l’allora INVIM; tuttavia non vi sono particolari dubbi sul fatto che i principi espressi ai fini di tali imposte siano applicabili anche alle imposte dirette.
In sintesi, prima dell’intervento delle Sezioni Unite si configuravano sul tema, in giurisprudenza, due orientamenti: il primo, espresso tra le altre, nelle sentenze Sez. T, n. 16202/2001, Meloncelli, Rv. 551335; Sez. T, n. 2416/2003, Oddo, Rv. 560556; Sez. T, n. 4426/2003, Magno, Rv. 561420, aveva, infatti, ritenuto che l’art. 52 del Testo unico sull’imposta di registro, nella parte in cui prevede che il sistema di valutazione automatica non si applica “per i terreni per i quali gli strumenti urbanistici prevedono la destinazione edificatoria”, facesse necessariamente riferimento a strumenti urbanistici già perfezionati, e richiedesse, pertanto, l’esistenza di un piano regolatore generale il cui iter formativo si fosse già completato mediante l’approvazione da parte della regione, non rappresentando tale atto una mera condizione di efficacia del provvedimento, ma un elemento costitutivo della fattispecie procedimentale, in quanto la regione ben può modificare o integrare il piano regolatore adottato dal comune.
econdo un altro orientamento, affermato, ad esempio, da Sez. T, n. 17513/2002, Oddo, Rv. 559083-01, e da Sez. T, n. 13817/2003, Del Core, Rv. 566966-01, l’adozione del piano regolatore da parte del comune, con l’inserimento del terreno in una zona avente destinazione edificatoria, era invece sufficiente a far escludere l’applicabilità del sistema di valutazione automatica, in quanto, imprimendo all’immobile una qualità che è recepita dalla generalità dei consociati come qualcosa di già esistente e di difficile reversibilità, era di per sé idonea a far venire meno la presunzione di proporzionalità tra il valore del terreno ed il reddito dominicale risultante in catasto, che rappresenta il fondamento del meccanismo di calcolo previsto dall’art. 52, comma 4, cit.
Per definire il contrasto, ancora prima della decisione delle Sezioni Unite, è intervenuto il legislatore, attraverso il d.l. n. 223 del 2006, conv. con modificazioni dalla l. n. 248 del 2006, il quale, all’art. 36 comma 2, ha previsto che, per stabilire se un’area è suscettibile di edificazione, è sufficiente fare riferimento al piano regolatore generale adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e dall’adozione di ulteriori strumenti urbanistici attuativi. Il riferimento di cui all’art. 67 T.u.i.r. deve essere inteso, quindi, in questo senso.
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, nel dirimere il contrasto di giurisprudenza nel senso del secondo orientamento, anche perché ormai definito dall’intervento legislativo nel frattempo intervenuto, hanno anche affermato il principio secondo cui tale norma ha natura interpretativa ed è quindi applicabile retroattivamente. E’ stato, dunque, di fatto modellato un concetto di edificabilità ai fini tributari, che è diverso da quello del diritto amministrativo – urbanistico perché non fa riferimento al concetto di edificabilità in concreto, ma in astratto, sulla sola base dello strumento urbanistico più generale che esista e senza tener conto degli strumenti attuativi (Sez. U, n. 25505/2006, Merone, Rv. 593374-01).
In questa prospettiva, Sez. T, n. 13657/2018, De Masi, Rv. 649086–01, ha affermato che, ai fini dell’applicabilità dell’art. 81, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 917 del 1986, come interpretato dall’art. 36, comma 2, del d.l. n. 223 del 2006, conv. in l. n. 248 del 2006, e della tassazione delle plusvalenze realizzate a seguito di cessione a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria, occorre che sussista un effettivo strumento urbanistico di pianificazione territoriale generale, adottato dal Comune, indipendentemente dall’approvazione della Regione e dall’adozione degli strumenti attuativi del medesimo, e quindi che sia già intervenuta, quanto meno, l’approvazione di una variante al piano regolatore generale, non rilevando di contro una mera aspettativa, anche giuridica, della futura approvazione di un siffatto strumento urbanistico.
In tale contesto, Sez. T, n. 1714/2018, Tricomi L., Rv. 646896 – 01, ha affermato che la natura pertinenziale di un terreno non ne esclude, di per sé, la potenzialità edificatoria: in applicazione del principio, la Suprema Corte ha annullato la sentenza impugnata che aveva escluso la tassazione in ragione della natura pertinenziale di un terreno edificabile rispetto ad un fabbricato, rilevando che i due beni risultavano accatastati separatamente e che nell’ambito della vendita, anche se conclusa con il medesimo atto, le parti avevano stabilito un prezzo specifico per il terreno. Sez. 6-T, n. 1674/2018, Mocci, Rv. 647103-01, ha ulteriormente precisato che non sono soggette a tassazione separata, quali “redditi diversi”, le “plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni sui quali insiste un fabbricato e quindi, già edificati. Ciò vale anche qualora l’alienante abbia presentato domanda di concessione edilizia per la demolizione e ricostruzione dell’immobile e, successivamente alla compravendita, l’acquirente abbia richiesto la voltura nominativa dell’istanza, in quanto la ratio ispiratrice del citato art. 81 tende ad assoggettare ad imposizione la plusvalenza che trovi origine non da un’attività produttiva del proprietario o possessore ma dall’avvenuta
destinazione edificatoria del terreno in sede di pianificazione urbanistica.
6.2 Inclusione delle cessioni gratuite nella base imponibile. Costituisce questione controversa se, per la determinazione della plusvalenza relativa alla cessione di un terreno edificabile, inserito in un piano di lottizzazione, regolamentato da convenzione urbanistica, si debba tenere conto del negozio di cessione gratuita dei terreni, quale costo deducibile ai fini delle imposte Le plusvalenze di cui alle lett. a) e b) del comma 1 dell’art. 67 sono costituite dalla differenza tra i corrispettivi percepiti nel periodo di imposta ed il prezzo di acquisto o il costo di costruzione del bene ceduto, aumentato di ogni altro costo inerente al bene medesimo. L’art. 7, comma 1, della l. n. 448 del 2001, per quanto rileva a questi fini, prevede, agli effetti della determinazione delle plusvalenze e minusvalenze di cui all’art. 81, comma 1, lett. a) e b) (ora art. 67, comma 1, lett. a) e b) TUIR), per i terreni edificabili e con destinazione agricola posseduti alla data del 1° gennaio 2002, che, in luogo del costo o valore di acquisto, possa essere assunto il valore a tale data determinato sulla base di una perizia giurata di stima, alla quale si applica l’art. 64 c.p.c., elaborata da uno dei professionisti indicati nella citata norma, conservando l’Ufficio il potere di accertare se lo stesso corrisponda o meno alla realtà (Sez. T, n. 9109/2002, Ebner, Rv. 555271-01). La legislazione urbanistica stabilisce che la lottizzazione dei terreni viene concessa dai Comuni subordinandola alla stipula di una convenzione che prevede, sovente, la cessione gratuita delle aree necessarie per le opere di urbanizzazione primarie e secondarie nonché l’assunzione a carico del proprietario del terreno degli oneri relativi a tali opere. La Corte di legittimità ha precisato che «la convenzione di lottizzazione, con la quale il Comune autorizza i privati a costruire secondo il progetto approvato e riceve in proprietà le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, ovvero le aree destinate a questo scopo, non consta necessariamente di un negozio giuridico unico, ma, in concreto, può risultare da una serie di atti negoziali con efficacia obbligatoria e reale, che si integrano a vicenda per lo scopo e per il contenuto, e che si raccolgono ad unità nell’effetto precettivo proprio del negozio di convenzione, dal cui complesso si attuano e l’intento del Comune di autorizzare la costruzione da parte dei privati ed il volere di questi di cedere al Comune la proprietà delle opere di urbanizzazione o delle aree a ciò destinate. Perciò, inserito nel negozio complessivo, l’atto, con cui l’originario proprietario dei terreni edificabili, in adempimento dell’obbligazione assunta con gli acquirenti, cede gratuitamente al comune la proprietà delle aree destinate alla urbanizzazione, non può considerarsi come autonomo atto di liberalità, come tale revocabile fino all’accettazione della controparte, ma come adempimento dell’obbligazione già assunta nell’ambito del negozio di vendita dei terreni ed accettata preventivamente dal Comune con la stipulazione della convenzione posta in essere con gli acquirenti delle aree fabbricabili» (Sez. 2, n. 1366/1999, Corona, Rv. 523342 – 01). Secondo questo principio – che Sez. T, n. 13633/2018, Fasano, Rv. 648678 – 01, condivide – la cessione gratuita di un’area rappresenta un onere implicito per l’ottenimento della concessione edilizia. La natura impositiva e non negoziale della “convenzione urbanistica” la cui essenza giuridica, al di là della sua definizione formale che richiama caratteri contrattuali, è assimilabile a quella di un onere quale prestazione avente le caratteristiche di obbligatorietà tipiche della nozione di “prestazione patrimoniale imposta”, con la conseguenza che tali cessioni devono ritenersi prestazioni patrimoniali aventi titolo in atto autoritativo. In adempimento delle obbligazioni scaturenti dalle convenzioni di lottizzazione, le parti sono obbligate a cedere gratuitamente, in favore del comune, appezzamenti di terreno da destinare alla realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria.
Ne consegue che, ai fini della determinazione della plusvalenza, l’atto con il quale l’originario proprietario dei terreni edificabili, in adempimento dell’obbligazione assunta, ceda gratuitamente al Comune la proprietà delle aree destinate all’urbanizzazione non si può considerare come un autonomo atto di liberalità, ma come adempimento dell’obbligazione già assunta nella vendita del terreno ed accettata preventivamente dall’ente con la stipula della convenzione urbanistica e, quindi, costo successivo “inerente”, ossia necessario per la realizzazione della lottizzazione. I contributi per oneri di urbanizzazione non hanno natura tributaria ma, piuttosto, costituiscono il corrispettivo di diritto pubblico, connesso al rilascio della concessione edilizia dovuto (Cons. Stato Sez. V, 21 aprile 2006, n. 2258; Sez. V, 6 ottobre 5816) quale partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione connesse all’edificazione, in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae (Sez. T, n. 11080/2008, D’Alonzo, Rv. 603489-01). In linea con questo indirizzo, si pone, inoltre, Sez. T, n. 3963/2002, Rv. 553144-01 secondo cui: «In tema di determinazione del reddito di impresa, il terreno acquistato da un’impresa costruttrice per essere ceduto al Comune in conto di onere di urbanizzazione per costruzioni realizzate, non può essere considerato un bene merce, essendo funzionale all’attività d’impresa svolta, la quale non si esaurisce nelle operazioni materiali di edificazione, ma comporta una serie di operazioni accessorie, preparatorie e complementari, finanziarie, tecniche, amministrative etc., nel cui ambito rientrano quelle dirette ad adempiere agli oneri di urbanizzazione, che sono obbligatorie per legge. Ne consegue la deducibilità del relativo costo». Il suddetto principio è stato affermato dalla Corte in tema di accertamento delle spese incrementative per la liquidazione dell’INVIM, laddove le cessioni gratuite delle aree ai Comuni per la realizzazione delle opere di lottizzazione, in forza di convenzione urbanistica, sono state ritenute incluse tra le spese incrementative (Sez. 1, n. 185/1988, Caturani, Rv. 037782-01).
6.3 L’imposta sostitutiva. La normativa tributaria attribuisce al contribuente la facoltà di optare per una imposta sostitutiva relativamente alla tassazione del plusvalore da cessioni di immobili. Sez. T, n. 10695/2018, Balsamo, Rv. 647973 – 01, ha chiarito che la stessa è un’imposta volontaria, in quanto è frutto di una libera scelta del contribuente, il quale opta per la rideterminazione del valore del bene con conseguente versamento dell’imposta sostitutiva, nella prospettiva, in caso di futura cessione, di un risparmio sull’imposta ordinaria altrimenti dovuta sulla plusvalenza non affrancata; l’operazione è di interesse anche per l’Amministrazione finanziaria che riceve un immediato introito fiscale. La stessa decisione, confermando un orientamento già espresso da Sez. T, n. 3410/2015, Cigna, Rv. 634647-01, ha poi precisato che assumono efficacia determinante, ai fini del perfezionamento della procedura in questione, da un lato, la redazione di una perizia giurata di stima, e, dall’altro, l’assoggettamento del detto valore ad imposta sostitutiva attraverso il versamento della stessa nel termine, cosicché la scelta del contribuente di optare (attraverso la perizia giurata di stima ed il versamento anche solo della prima rata dell’imposta sostitutiva) per la rideterminazione del costo o valore di acquisto delle partecipazioni costituisce atto unilaterale dichiarativo di volontà, che, giunto a conoscenza del destinatario Amministrazione Finanziaria (mediante il detto pagamento dell’imposta sostitutiva) comporta di per sé quale suo effetto (per quanto detto sopra) la rideterminazione del valore della partecipazione, e, pertanto, in base ai principi generali di cui all’art. 1324 c.c. ed all’art. 1334 e ss. c.c. e non può essere revocato per scelta unilaterale del contribuente.
Sez. T, n. 13636/2018, Stalla, Rv. 648679 – 01, ha stabilito, con specifico riguardo alla fattispecie di cui all’art.7 della l. n. 448 del 2001, ma con principio di valenza generale, che, nel caso in cui il contribuente si avvalga della facoltà di rideterminazione del valore sulla base della prescritta perizia giurata di stima, «l’Ufficio conserva il potere di accertare se lo stesso corrisponda o meno alla realtà, in quanto il richiamo dell’applicabilità a detta perizia dell’art. 64 c.p.c. non attribuisce a questa la forza di atto pubblico, ma ha l’unico scopo di assoggettare il professionista incaricato dal privato alla responsabilità penale del consulente tecnico d’ufficio nominato dal giudice, né, del resto, la consulenza tecnica fa pubblica fede dei giudizi e delle valutazioni in essa contenuti».
Analogamente, Sez. 6-T, n. 19465/2016, Napolitano, Rv. 641238- 01, ha stabilito che, in tema di determinazione della plusvalenza Irpef ex art. 67, del d.P.R. n. 917 del 1986, la perizia giurata di stima di cui alla l. n. 448 del 2001 «non limita il potere di accertamento dell’Amministrazione finanziaria», desumendosi da essa unicamente il valore normale minimo di riferimento – ma non per questo intangibile – ai fini della tassazione sostitutiva.
Sempre in tema di imposta sostitutiva da plusvalenza derivante dalla compravendita di terreni, Sez. T, n. 10695/2018, Balsamo, Rv. 647973-01, ha ritenuto che, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 448 del 2001 il procedimento di rivalutazione degli stessi si perfeziona con il versamento dell’intera imposta da parte dei titolari del diritto di proprietà, che, sebbene debba effettuarsi secondo le modalità contemplate dagli 17 e 19 del d.lgs. n. 241 del 1997, consente il pagamento cumulativo da parte di uno dei comproprietari, in quanto l’unica condizione posta dal detto art. 7 è l’integrale versamento di un importo corrispondente al valore di perizia.
6.4 Plusvalenze da cessione di impresa familiare. Le plusvalenze derivanti dalla cessione di un’azienda gestita in regime di impresa familiare, così come i redditi derivati dall’esercizio della stessa, stante l’equiparazione della impresa familiare alla società di persone, vanno imputati ai singoli partecipanti a prescindere dalla loro effettiva percezione.
Tuttavia, in deroga alla disciplina ordinaria, l’art. 1 del d.lgs. n. 358 del 1997 prevede una imposta sostitutiva, secondo cui «le plusvalenze realizzate mediante la cessione di azienda possedute per un periodo non inferiore a tre anni e determinate secondo i criteri previsti dall’art. 54 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, possono essere assoggettate ad un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi, con l’aliquota del 19 per cento. Qualora le plusvalenze di cui ai commi 1 e 3 siano realizzate dalle società di cui all’art. 5 del Testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, l’imposta sostitutiva è dovuta dalle società stesse, che esercitano l’opzione nella dichiarazione dei redditi indicata nel comma 2 e provvedono alla liquidazione ed al versamento».
In tale materia, Sez. T, n. 5726/2018, Esposito, Rv. 647252 – 01, ha ritenuto, in un caso in cui il contribuente si era avvalso nella propria dichiarazione dei redditi dell’imposta sostitutiva prevista dalla norma derogatoria di cui all’art. 1 del d.lgs. n. 358 del 1997, incassando la plusvalenza derivante dalla vendita dell’azienda relativa all’impresa familiare, che per effetto della cessione era venuta definitivamente meno, che la plusvalenza così realizzata deve essere imputata interamente al titolare dell’impresa familiare.
6.5Cessione di azienda. Se T, n. 11434/2018, Greco, Rv. 648071 – 01. ha ritenuto configurabile una plusvalenza tassabile anche nel caso di cessione di azienda (nella specie, una farmacia) con costituzione di una rendita vitalizia a favore del cedente, ai sensi dell’art. 1872 c.c., posto che essa può costituire il corrispettivo di un’alienazione patrimoniale che, pur assicurando una utilità aleatoria quanto all’ammontare concreto delle erogazioni che verranno eseguite, ha un valore economico agevolmente accertabile con riferimento a calcoli attuariali, secondo criteri riconosciuti dall’ordinamento giuridico; né può essere considerato di ostacolo alla tassazione il rischio di doppia imposizione, essendo la rendita vitalizia assimilabile a fini fiscali al reddito da lavoro dipendente, in quanto il divieto di doppia imposizione scatta al momento della concreta liquidazione della seconda imposta e solo nel caso in cui l’Amministrazione ritenga di avere diritto a ricevere il doppio pagamento.
6.6 Cessioni di beni L’art. 86, comma 5, T.u.i.r. dispone che «la cessione dei beni ai creditori in sede di concordato preventivo non costituisce realizzo delle plusvalenze e minusvalenze dei beni, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento».
Sez. T, n. 13122/2018, Fuochi Tinarelli, Rv. 648472 – 01, ha affermato, richiamando diversi precedenti nella giurisprudenza della Corte di legittimità, che è pacifico, in primo luogo, che la disposizione vada intesa come riferita alle cessioni a terzi atteso che, come affermato dalla Suprema Corte in più occasioni, «malgrado le ambiguità della sua formulazione, essa riguarda (non la cessione dei beni ai creditori, ma) il trasferimento a terzi dei beni ceduti». Le cessioni che assumono rilievo, peraltro, sono solo quelle «effettuate in esecuzione della proposta di concordato» , sicché nella specie la Corte di cassazione ha ritenuto correttamente esclusa, da parte dei giudici di merito, l’applicazione dell’art. 86, comma 5, T.u.i.r.
In tal senso, la decisione rileva come la ratio della norma vada individuata nella volontà del legislatore di favorire l’adesione alla procedura concordataria, evitando la nascita di un debito d’imposta che, sebbene successivo alla procedura stessa, avrebbe dovuto gravare sulla medesima (e dunque, pregiudicare le ragioni dei creditori), nonché, sotto altro versante, nell’esigenza di impedire che, in capo a un soggetto che ha subito lo “spossessamento” dell’intero patrimonio, possa sorgere un’obbligazione relativa alle imposte reddituali, al cui pagamento quel soggetto non potrebbe adempiere, non disponendo di alcun mezzo per effetto del predetto spossessamento. È evidente, infatti, che la realizzazione di operazioni difformi al contenuto del concordato frustra la ratio di incentivazione, per cui non basta che esse siano state realizzate nel corso del concordato ma è necessario che ne siano attuazione. La decisione ha, poi, ritenuto irrilevante che sia intervenuto, a recepimento del nuovo assetto, un successivo concordato attesa l’anteriorità delle operazioni rispetto alla relativa omologazione.
6.7 Capital gains. Secondo Sez. T, n. 9507/2018, Stalla, Rv. 647834 – In tema di imposta sostitutiva sui capital gains, sebbene ai sensi dell’art. 5, comma 4, della l. n. 448 del 2001, la rivalutazione delle partecipazioni non negoziate nei mercati regolamentati debba essere effettuata con stima giurata riferita all’intero patrimonio sociale, il contribuente, secondo un criterio di convenienza, può utilizzare detta rivalutazione anche ai fini della tassazione solo di una parte delle azioni o quote detenute.
La Corte di legittimità ha, dunque, ritenuto, sulla base dei principi generali in materia, che, in tema di imposta sostitutiva sui capital gains, il contribuente, dopo aver effettuato una prima rivalutazione del bene (in particolare, partecipazioni non negoziate nei mercati regolamentati), con conseguente versamento dell’imposta, può chiedere, a seguito del sopraggiungere di una disciplina fiscale più favorevole, una nuova determinazione del valore qualora il bene sia ancora in suo possesso e, in tal caso, ha diritto, nella vigenza dell’art. 7 del d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito dalla l. 12 luglio 2011, n. 106, ad effettuare la compensazione tra la nuova e la precedente imposta, mentre, anteriormente all’entrata in vigore della norma, poteva usufruire solo del rimborso, stante il divieto di doppia imposizione.
Sempre in tema di tassazione dei capital gains, va poi ricordato che la n. 205 del 2017 (legge di bilancio 2018), all’articolo 1, commi 999-1006, ha modificato la disciplina relativa alla tassazione dei dividendi percepiti dalle persone fisiche non in regime di impresa, parificando di conseguenza, il trattamento relativo alle partecipazioni qualificate e non qualificate. Pertanto, non vi sarà più la distinzione tra partecipazioni qualificate e non qualificate, ma tutte saranno tassate con aliquota unica del 26 per cento a titolo di imposta.
6.8 Rateizzazione della plusvalenza. La possibilità di “spalmare” la plusvalenza conseguita su più anni di imposta è consentita previa formale opzione da esercitare in dichiarazione dei Tuttavia Sez. T, n. 16242/2018, Condello, Rv. 649118-01, ha ritenuto che, qualora sia mancata in dichiarazione la formale opzione per la rateizzazione, vale a favore del contribuente il comportamento concludente costituito dall’avere spalmato la plusvalenza nelle dichiarazioni dei redditi dell’anno in cui essa si è verificata e nei quattro anni successivi in quote costanti, potendosi da tale comportamento inferire la implicita opzione per il regime di rateizzazione della plusvalenza.